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Nessuna immagine tutte le immagini. Due dibattiti sulla rappresentabilità della Shoah

L'Assessore alla cultura del Comune di San Vito di Leguzzano, Cristiano Filippi Farmar presenta la terza serata della rassegna "Lo spechcio magico"

Questa sera è con noi Alberto Brodesco che ci presenterà “Nessuna immagine, tutte le immagini.

Due dibattiti sulla rappresentabilità della Shoah”
Primo dibattito: le immagini della Shoah riescono a comunicare qualcos’altro se non l’impossibilità di mostrare l’inimmaginabile?
Partecipano: Georges Didi-Huberman, Claude Lanzmann, Jean-Luc Godard.
Secondo dibattito: le immagini della Shoah possono illuminare, per accostamento, altri momenti della Storia?
Partecipano: Alain Finkielkraut, Eyal Sivan, Claude Lanzmann.
Due dialoghi a più voci sulla memoria e sul suo utilizzo.

ALBERTO BRODESCO
nasce a Malo. Laureato in Sociologia, lavora come tecnico laureato al Dipartimento di Scienze Umane e Sociali presso l’università di Trento. Attualmente partecipa a un dottorato in Studi audiovisivi – cinema, musica, comunicazione presso l’Università di Udine.
È autore della monografia Una voce nel disastro. L’immagine dello scienziato nel cinema dell’emergenza.
E’ coautore de: La galassia rosa. Ricerche sulla letteratura femminile di consumo; e Culture popolari, generi e prodotti narrativi: analisi sociologiche di letterature popolari, fumetti e cinema.
Ha pubblicato dei saggi su molti altri argomenti, da Jean-Luc Godard alle mucche del Trentino.
Cura, per “Questo Trentino”, la rubrica Monitor dove si occupa di cinema e di cultura sociale.
È critico cinematografico, scrive di cultura visuale e di sociologia negli ambiti della comunicazione audiovisiva.
Fa parte dell’associazione AtoZ – Una darsena culturale – con cui da anni cura il festival ‘Azioni Inclementi’.

Alberto Brodesco

Alcuni stralci dalla registrazione della serata:

[…] Due dibattiti tipicamente francesi, filosofici ma non solo, e non come accade spesso intellettuali e sterili contrapposizioni, ma ragionamenti fondamentali che riguardano il senso profondo delle cose in particolare dello sguardo, del guardare, dell’immagine e della storia e della relazione tra queste due componenti. […]

Il primo dibattito è  sulla relazione tra la Shoah e la sua rappresentazione, tra Shoah e immagine, il secondo è sull’uso della memoria, sull’uso delle immagini, su quale utilizzo possiamo fare oggi delle immagini della Shoah e della storia.

Nel 2001 a Parigi viene organizzata una mostra all’Hotel de Ville dal titolo “Mémoire des camps. Photographies des camps de concentration et d’extermination nazis (1933-1999)” al centro dell’esposizione ci sono 4 fotografie in particolare, fotografie fatte uscire dai forni crematori di Auschwitz da alcuni membri del  commando speciale composto da elementi selezionati tra i detenuti che gestivano gli aspetti pratici più complessi. I membri del Zonder Commando erano uomini destinati ad una morte nell’immediato essendo testimoni dell’orrore, troppo vicini per poter sopravvivere e poter raccontare quanto avevano visto. Le foto in questione furono scattate da uno di questi mettendo a rischio la sua vita, le scatta dall’interno di un forno crematorio con una macchina fotografica fatta pervenire di nascosto.

Fondamentale è far uscire delle informazioni dai campi di sterminio per scuotere l’opinione pubblica, e far uscire delle fotografie vale di più della testimonianza orale, secondo proprio il luogo comune che un’immagine vale più di mille parole e che un’immagine riproduce la realtà dello sterminio senza bisogno di raccontarla. Le immagini sono delle prove.

[…] La prima riflessione da fare è sullo statuto dell’immagine fotografica, sulla sua reale capacità di essere testimone di qualcosa che è successo. Una fotografia da sola non prova niente o prova poco, c’è bisogno di decifrarla, di aggiungere informazioni, le immagini, contrariamente al luogo comune, non parlano da sole. Secondo punto proprio per le condizioni estreme in cui sono state scattate queste foto fanno fatica a mantenere questo status testimoniale.  […]

È interessante ragionare sul fatto di quanto i “difetti” di queste immagini riescano a raccontare del luogo in cui sono state scattate sul contesto in cui si trovava il fotografo, sul valore e sul coraggio del fotografo.

Nel catalogo che accompagna la mostra esce un saggio importante di Georges Didi-Huberman, filosofo dell’arte, il cui titolo è “Immagini malgrado tutto” (pubblicato in Italia da Raffaello Cortina Editore), il saggio inizia con una citazione di Jean-Luc Godard che dice “anche se molto rigato un semplice rettangolo di 35 mm salva l’onore di tutto il reale”. Il saggio si sforza di interpretare e contestualizzare quelle immagini, di vedere cosa possiamo chiedere a quelle immagini, che uso e quale rispetto dobbiamo nutrire nei confronti di quelle immagini. La cosa interessante è stata la reazione, in particolare su una rivista francese fondata da Sartre,  qui le critiche furono piuttosto feroci, l’accusa è che non si può ridurre la complessità dello sterminio a quattro immagini che non possono e non sono capaci di raccontare tutto, non sono capaci di “salvare l’onore di tutto il reale”. Le obiezioni sono fondamentalmente tre: la prima è che queste immagini non mostrano l’interno delle camere a gas, la seconda obiezione è che il reale non si risolve all’interno del visibile, la terza, forse la più interessante, dice che al cuore della Shoah c’è qualcosa di irrapresentabile, qualcosa che strutturalmente non può essere contenuto in 1, 2, 4, 1000, immagini. La Shoah è un evento che mette in crisi ogni medium visivo. Les Temps Modernesè la rivista diretta da  Claude Lanzmann , il regista di Shoah, lungo documentario del 1985 – edito in Italia da Einaudi. Shoah mostra solo i testimoni e fa sentire i loro racconti e le loro voci, niente immagini d’archivio, esclusivamente interviste dei sopravvissuti, dei carnefici e degli “spettatori”. Lanzmann mostra i campi come sono oggi, luoghi della memoria organizzata oppure non luoghi, luoghi abbandonati. La verità sullo sterminio per Lanzmann è patrimonio del testimone, del testimone muto, di colui che non vuole parlare, la verità maggiore sta nell’incapacità di parlarne. Nessuna immagine, dice Lanzmann può sostituire una lontana idea di quello che è successo, qualunque immagine tradisce la shoah perché la shoah è inimmaginabile. Le uniche cosa su cui possiamo confrontarci sono le voci e i volti dei sopravvissuti. L’immaigne dà un’illusione di conprensione, un’illusione che è deleteria, l’unica cosa che si può fare è di accettare una nostra mancanza, una nostra incapacità di capire.

“Guardare le immagini delle camere a gas significherebbe necessariamente abitare la posizione dello spettatore esterno rispetto alle vittime e quindi di aderire chimicamente e percettivamente alla posizione stessa del nazista, le vittime in questo modo sarebbero viste come attraverso la vetrina di un acquario vale a dire una distanza tale che la stessa morte non è nient’altro che un’informazione, la struttura delle immagini restituisce implicitamente una posizione di voyerismo sadico”
da un’intervista a Lanzmann del 2000

la posizione di Lanzmann è in forte contrapposizione con quella di Didi-Huberman e con ogni tentativo di lavorare sulla Shoah con le immagini in qualsiasi modo e la polemica si estende anche a Jean-Luc Godard e nei confronti dei suoi lavori in particolare a “Histoire du cinéma” un lungo saggio sulla storia del ‘900 del cinema. Godard entra nel dibattito dicendo che il film di Lanzmann non mostra niente di niente, non è stato capace di mostrare nulla. Godard per tutto l’arco della sua carriera di regista si è confrontato con il tema dell’immagine e del cinema e dello sterminio ed ha sottolineato la mancanza del cinema. La prima mancanza riguarda la sua capacità di mettere in allarme, di prevenire rispetto alla deriva nazista, non ha dato dei segnali abbastanza forti rispetto a questa cosa che però era riuscito ad avvertire (il grande dittatore di Chaplin è del 1940). La seconda manza riguarda la mancanza di riprese filmate all’interno dei campi di concentramento, ci sono riprese realizzate dagli americani dopo la liberazione dei campi, e questa assenza è l’assenza di uno sguardo, la mancanza di una consapevolezza visuale di quello che stava succedendo. Il cinema non ha saputo essere all’altezza del suo ruolo, dice Godard. per Godard il problema non è che nessuna immagine riesca a parlare della Shoah, il problma è che tutte le immagini successive parlano della shoah, di questo vuoto, di questo tentativo continuo di coprire un vuoto una mancanza, e la ricerca continua di una resurrezione rispetto alla colpa di non esserci stata quando serviva. Perciò per Godard questo lavoro sulla memoria e sulle immagini è un lavoro che bisogna continuare a fare,un lavoro infinito di accostamento e di riflessione sulle immagini.

Ecco il senso del titolo che si è voluto dare all’intervento: per Lanzmann nessuna immagine può parlare della Shoah, per Godard tutte le immagini posso parlare della Shoah.
[…] Cosa comunicano veramente le immagini, cosa vuol dire guardare, come possiamo accostarci alle immagini e come ci si può avvicinare a questi eventi che superano ogni possibilità di comprensione. Il confronto con tutta una serie di paradossi: come avvicinare l’inavvicinabile, come immaginare l’inimmaginabile, come tollerare l’intollerabile.

[…] Dice Georges Didi-Huberman:
Guardare non vuol dire avere, possedere un’immagine, il vedere, nel suo significato più profondo, è una questione che rimanda ad una dimensione dell’essere, un passaggio dall’avere all’essere, e questa dimensione dell’essere ha a che fare con ciò che non si vede, con ciò che è assente, di un vuoto all’interno dell’immagine.
Allora le tesi di Lanzmann e Didi-Huberman possono trovare un punto di contatto  se leggiamo le immagini fatte uscire dai forni crematori non come un toccare con mano, un modo per conoscere, afferrare, possedere la realtà dello sterminio, ma come immagini che rimandano appunto alla dimensione dell’essere.

“l’esperienza familiare di ciò che vediamo sembra solitamente dare luogo ad un avere, vedendo qualche cosa abbiamo in generale l’impressione di guadagnare qualche cosa, ma la modalità del visibile diventa ineluttabile, vale a dire votata alla questione dell’essere quando vedere è sentire che qualcosa ineluttabilmente ci sfugge, o in altre parole, quando vedere è  perdere ”
Georges Didi-Huberman



Il.
secondo dibattito è un dibattito che avviene in un tribunale parigino, nel febbraio del 2004, un regista, documentarista  israeliano, Eyal Sivan, porta in tribunale un filosofo francese Alain Finkielkraut. […] il processo ha a che fare con un lavoro documentario di Sivan del 2003 “Route 181. Frammenti di un viaggio in Palestina e Israele” il documentario racconta il percorso di un regista Israeliano e uno palestinese lungo il confine tracciato dalle nazioni unite sulla divisione delle due nazioni. […] il documentario si compone per lo più di interviste, molto critico dell’occupazione israeliana. È interessante come i registi nelle interviste non oppongano un loro parere sul giudizio dell’intervistato.È un lavoro sul linguaggio, su cosa vogliono dire le parole, su come si possono usare… […]

Finkielkraut commenta durante una trasmissione televisiva Route 181 e critica molto duramente il film dicendo che è basato su una falsa analogia fra sterminio nazista e guerra di indipendenza israeliana, dce che è una chiamata all’omicidio, un incitamento all’odio, parole forti e gravi, e che Sivan è l’esemplare di una realtà dolorosa, quella dell’antisemitismo ebraico. “Quelli che ci cuciono sul petto una croce uncinata non fanno altro che rivendicare per loro stessi un stella gialla”
Sivan lo querela.


Tra i testimoni della difesa Alain Finkielkraut fa comparire Claude Lanzmann e sostiene che Route 181 è un plagio di Shoah. Il processo più interessante non è più quello per diffamazione ma quello per plagio in particolare viene citata e contestata una scena, in cui un barbiere palestinese mentre taglia i capelli ad un suo cliente viene intervistato e racconta una sua esperienza. I problema è che questa scena richiama esplicitamente una scena equivalente di Shoah, in cui un dei testimoni chiave viene intervistato mentre taglia i capelli in una bottega di Tel Aviv.  Questo esempio è forse il più famoso di Shoah e della strategia di Lanzmann di forzatura dell’intervistato. […] Il parallelismo tra i due barbieri scatta immediatamente. Lanzmann è molto duro […]

le due scene dei barbieri tratte dal film di Sivan, Route 181 e da Shoah di Lanzmann


Nascono due principali problemi, s  può ragionare sull’uso che viene fatto delle immagini, in particolare si può utilizzare un’immagine che richiama la Shoah per dire qualcosa d’altro, sui drammi di altri popoli, sui drammi contemporanei? Lanzmann dice ancora no, nessuna immagine può essere utilizzata per fare paragoni,mentre Sivan sembra dire una cosa opposta, che tutte le immagini della Shoah devono essere usate per guardare al mondo di oggi, al mondo di domani. Sivan si trova di fronte ad un barbiere e gli scatta il ricordo di Shoah e la volontà di affiancare i due testimoni, le due vittime.  Questa posizione è eticamente inattaccabile, è quello che deve fare uno spettatore, deve provare ad utilizzare l’obiettivo per connetterlo ad una serie di significati che non vanno esauriti all’interno di un film ma prosegue fino a cambiare la nostra capacità di guardare. Secondo questa posizione è necessario riutilizzare delle immagini viste se quelle immagini effettivamente ci riguardano. Sivan accosta idealmente questi due barbieri ed è in questo che consiste la forza propria del cinema, non solo un’immagine in movimento ma due immagini poste vicine. Due fotografie da comparare per trovarne una terza nell’interstizio tra le due (Godard)  […]

Il pubblico in sala civica durante la 3° serata de "Lo specchio magico"

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Discussione

Un Commento a “Nessuna immagine tutte le immagini. Due dibattiti sulla rappresentabilità della Shoah”

  1. Buongiorno,
    per cortesia, è possibile sapere da quale testo di Didi-Huberman la seguente citazione sul vedere?
    (non sono riuscito in nessun modo a trovarla.
    Grazie per l’attenzione, un cordiale saluto):

    Nessuna immagine tutte le immagini. Due dibattiti sulla rappresentabilità della Shoah
    SCRITTO DA LAURA ? 31 GENNAIO 2011 😕
    “[…] Dice Georges Didi-Huberman:
    Guardare non vuol dire avere, possedere un’immagine, il vedere, nel suo significato più profondo, è una questione che rimanda ad una dimensione dell’essere, un passaggio dall’avere all’essere, e questa dimensione dell’essere ha a che fare con ciò che non si vede, con ciò che è assente, di un vuoto all’interno dell’immagine”.

    Inserito da Sergio Gioberto | 16 Dicembre 2022, 11:53

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